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mente, e accoglieva quelle dimostrazioni di rispetto come un anticipato compenso all’umiliazione che andava a patire da quella vecchia bestia feroce del Mortara. Una costernazione tuttavia gli guastava il piacere di quei saluti: tra breve, entrando nei dominii di colui, sarebbe stato assaltato dai cani, da quei tre mastini più feroci del padrone, il quale certo aveva loro insegnato a fargli ogni volta quell’accoglienza. E aveva un bel gridare Sciaralla, mentre quelli gli saltavano addosso, di qua e di là, fino all’altezza di Titina, che a sua volta traeva salti da montone, spaventata: Mauro o il curàtolo Vanni di Ninfa si presentavano col loro comodo a richiamarli, quando il malcapitato aveva già veduto più volte la morte con gli occhi.
Con quei tre mastini Mauro Mortara conversava proprio come se fossero creature ragionevoli. Diceva che gli uomini non san capire i cani; ma questi sì, gli, uomini. Il male è — diceva — che, poveretti, non ce lo sanno esprimere; e noi crediamo che non ci capiscano e non sentano.
Sciaralla però se lo spiegava altrimenti, il fenomeno. Quei cani intendevano così bene il padrone, perchè questo era più cane di loro. E gli parve d’averne una riprova quella mattina stessa.
Mauro stava innanzi a la villa; e i tre amiconi, vigili attorno, col muso per aria. Ebbene, all’arrivo di lui, questa volta, essi se ne stettero lì (uno, anzi, sbadigliò), quasi avessero compreso che il padrone avrebbe fatto ottimamente le loro veci.
— Che vuoi tu qua, a quest’ora, mal’ombra? — gli disse infatti Mauro, tirandosi giù dal capo il cappuccio del ruvido cappotto, in cui era avvolto, e scoprendo la testa oppressa dall’enorme berretto villoso.
Quand’era prossima la vendemmia, Mauro Mortara