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Nel regno dell’orco.


Superata l’erta dello stradone, appoggiato di là all’altro versante della vallata, Placido Sciaralla seguitava intanto a trotterellare su Titina per Valsanìa, immerso in nuove e più complicate considerazioni, dopo quelle notizie del Préola. A un certo punto, scrollò le spalle e si mise a guardare intorno.

Gli si svolgeva ora, a sinistra, la campagna lieta della vicinanza del mare, tutta a mandorli e a olivi. Era già in vista della Seta, casale d’una cinquantina d’abituri allineati su lo stradone, fondachi e taverne pei carrettieri, la maggior parte, da cui esalava un tanfo acuto e acre di mosto, un tepor grasso di letame, e botteghe di maniscalchi, di magnani, di carrai, con una stamberguccia in mezzo, ridotta a chiesuola per le funzioni sacre della domenica.

Per schivare la vista di quei borghigiani zotici che lo conoscevano tutti, Sciaralla imboccò un sentieruolo tra i campi e in breve s’internò nelle terre di Valsanìa.

Tranne il vigneto, cura appassionata e orgoglio di Mauro Mortara, e l’antico oliveto saraceno, il mandorleto e alcuni ettari di campo sativo e, giù nell’ampio burrone, l’agrumeto, che costituivano la parte di mezzo riservata a don Cosmo, tutto il resto era ceduto in piccoli lotti a mezzadrìa a poveri contadini, non dal principe don Ippolito direttamente, a cui anche quel fèudo apparteneva, ma da fittavoli di fittavoli, i quali, non contenti di vivere in città da signori su la fatica di quei poveri disgraziati, li vessavano, li dissanguavano con l’usura più spietata e