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la vela ammainata a metà bu l’albero; a piè dello cataste s’impiantano le stadere, su le quali lo zolfo è pesato e quindi caricato su le spalle dei facchini, detti uomini di mare, i quali, scalzi, in calzoni di tela, con un sacco su le spalle, rimboccato su la fronte e attorto dietro la nuca, immergendosi nell’acqua fino all’anca, recano il carico alle spigonare, che poi, sciolta la vela, vanno a scaricar lo zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto, o fuori.

— Lavoro da schiavi, — disse il Pigna, — che stringe il cuore, certi giorni d’inverno.... Schiacciati sotto il carico, con l’acqua fino alle reni.... Che son uomini, quelli? Bestie sono.... E se dici loro che potrebbero diventar uomini, aprono la bocca a un riso scemo e t’ingiuriano. Sai perchè non si costruiscono le banchine su le scogliere del nuovo porto, donde l’imbarco si potrebbe far più presto o comodamente coi carri o coi vagoncini? Perchè i pezzi grossi del paese sono i proprietarii delle spigonare! E intanto, con tutti i tesori che si ricavano da quel commercio, le fogne sono ancora scoperto su la spiaggia, e la gente muore appestata; con tanto mare lì davanti, manca l’acqua potabile, e la gente muore assetata! Nessuno ci pensa; nessuno se ne lagna. Pajono tanti pazzi tutti quegli uomini, là imbestiati nella guerra del guadagno, bassa e feroce!

— Ma sai che parli bene davvero? — concluse il Préola, approvando. — Ma sai che ti giovarono sul serio le prediche che sentisti da sagrestano?

Baibai, baibai, dice l’Inglese! — soggiunse Nocio Pigna, stendendo minacciosamente il lunghissimo braccio.

— Trecentomila siamo, caro mio, oggi come oggi. E presto ci sentirete.