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luogo, a Porto Empedocle, paese di mare, aperto al commercio: niente! niente! non si può far niente! Come bruti sono! Peggio! Ma sai come vivono giù a Porto Empedocle? Come si fa ancora l’imbarco dello zolfo? Lo sai?

Marco Préola era stanco: crollò il capo, mormorò:

— Porto Empedocle....

E a tutti e tre si rappresentò l’immagine di quella borgatella di mare cresciuta in poco tempo a spese della vecchia Girgenti e divenuta ora Comune autonomo. Una ventina di casupole, prima, là sulla spiaggia, con un breve ponitojo da legni sottili, detto ora Molo Vecchio, e un castello a mare, quadrato e fosco, dove si tenevano ai lavori forzati i galeotti, quelli che poi, cresciuto il traffico dello zolfo, avevano gettato le due ampie scogliere del nuovo porto, lasciando in mezzo quel piccolo Molo, al quale, in grazia della banchina, è stato serbato l’onore di tener la sede della capitaneria del porto e la bianca torre del faro principale. Non potendo allargarsi per l’imminenza d’un altipiano marnoso, il paese s’è allungato su la stretta spiaggia, e fino all’orlo di quell’altipiano le case si sono addossate, fitte, oppresse, quasi l’una su l’altra. I depositi di zolfo s’accatastano lungo la spiaggia; e da mane a sera è uno strider continuo di carri, che vengono carichi di zolfo dalla stazione ferroviaria o anche, direttamente, dalle zolfare vicine; è un rimescolìo senza fine d’uomini scalzi e di bestie, e sbaccaneggiar di liti, e bestemmie, e richiami, tra lo strepito e i fischi d’un treno che attraversa la spiaggia, diretto ora all’una ora all’altra delle due scogliere sempre in riparazione. Oltre il braccio di levante fanno siepe alla spiaggia le spigonaro con