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Per quanto si sforzasse, non riuscì a raccapezzarsi. E allora, quasi lasciando fuori, a vagar dove volevano, pensieri e dubbii e sospetti, si restrinse nel guscio sicuro della sua coscienza, nel sentimento modesto, tranquillo e solido, ch’egli aveva di sè.
Per il caso fortuito d’aver cavato, un giorno, quasi senza volerlo, dalle mani della morte il Salvo, era stato sollevato in una condizione invidiabile, di cui con le non comuni doti naturali, con la buona volontà, egli aveva saputo rendersi degno. Il favore stesso della fortuna, che tutti riconoscevano meritato, l’eco ingrandita degli onori a cui era venuto negli studii, nei concorsi, nella professione, gli avevano dato intanto un’importanza che egli stesso riconosceva soverchia, e che lo metteva qualche volta in imbarazzo. Il modo con cui si vedeva accolto e trattato, quel che si diceva di lui, gli dimostravano di continuo ch’egli era per gli altri qualcosa di più, che per sè stesso, un altro Aurelio Costa, ch’egli non conosceva bene, di cui non si rendeva ben ragione; restava perciò sempre innanzi agli altri, in uno stato d’animo angustioso, in una strana apprensione confusa, di venir meno all’aspettativa altrui, di decadere dalla sua reputazione. Sapeva star bene al suo posto, ma avrebbe voluto starci quieto e sicuro; invece gli pareva che gli altri, avendo egli preso a salire fin da ragazzo, gli indicassero ancora come a lui pertinente un posto più alto, e lo spingessero e non lo lasciassero star tranquillo. Non era timidezza la sua; era un ritegno impiccioso, che spesso lo irritava contro gli altri o contro sè stesso, una costernazione assidua, che si scoprisse in lui qualche manchevolezza, se appena appena si fosse allontanato dal campo delle sue conoscenze, ove si sentiva sicuro; dal canto, ove poteva stare, ov’era