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Nel bujo della sera sotto il pallore dei lampioni, per l’angusta via passò tumultuando quel torrente di popolo, che si lasciava trascinare senza il minimo entusiasmo, come un armento belante, dalla volontà di due tre interessati.

La villa di Flaminio Salvo era illuminata tutta, splendidamente, perchè si vedesse come segno di trionfo dalla lontana Colimbètra. Vi erano raccolti i maggiorenti del partito, che si affacciarono tutti al gran balcone dalla balaustrata di marmo, appena i clamori della dimostrazione si fecero sentire giù per il viale.

— Viva Flaminio Salvòòò!

— Vivààà!

— Viva Ignazio Capolinòòò!

— Vivààà!

Sali a la villa una commissione di dimostranti, che fu accolta dal Salvo con quel solito sorriso freddo, a cui lo sguardo lento degli occhi sotto le grosse pàlpebre dava un’espressione di lieve ironia. E veramente quei quindici o sedici cittadini accaldati, usciti or ora dalla moltitudine anonima, che giù nel bujo del viale aveva tanta imponenza, assumendo a un tratto ciascuno il proprio nome, il proprio aspetto, lì, timidi, impacciati, esitanti, smarriti, ossequiosi, quasi cuciti per lo maniche, facevano una ben misera figura, tra gli splendori del magnifico salone. Flaminio Salvo si dichiarò grato alla cittadinanza di quella solenne affermazione del sentimenti, popolare; diede notizie della salute dell’on. Capolino e, in presenza della commissione stessa, pregò l’ingegnere Aurelio Costa di recarsi sul momento a la villa del Principe, a Colimbètra, per darvi l’annunzio della proclamazione o di quella manifestazione di giubilo di tutto il popolo di Girgenti.