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— Niente, — disse subito Roberto. — Una notizia, senza dubbio, infondata. Signori miei, per carità! Soffro.... soffro della vostra pena.... molto più che per me. Volete farmi contento? Non parliamo più di nulla. Quel che è stato è stato. Basta! Voi sapete quanto mi siete cari e per qual ragione. Io non vi ringrazio di quel che avete fatto per me, in questa occasione, perchè so che, se sono cangiati i tempi, non è cangiato il nostro cuore, e voi dunque non potevate non fare per me quel che avete fatto. Il torto è nostro, veramente, cari miei! E lo sappiamo tutti, da un pezzo, chi per un verso, chi per un altro. Dunque.... dunque basta: perchè lagnarci adesso? È stata un’altra prova, di cui io, per conto mio, non sentivo alcun bisogno.... Basta!
Non ne poteva proprio più Roberto Auriti. La vista di quegli amici e il silenzio della madre, il pianto del Trigona, la stizza acerba dell’Agrò, la frigida saccenteria del Noto gli eran divenuti insopportabili. Gli premeva di scrivere a Roma, di dar subito notizia della lotta perduta alla sua donna, a colei che da tanto tempo gli aveva addormentato aspirazioni e sdegni, e nella quale egli, affogato ormai nell’incuria di tutto ciò che non si riferisse direttamente e minutamente alla sua persona, neghittoso e dimentico, saziava soltanto la fame bruta del senso.
Di fronte alla nobiltà della madre, alla purezza de la sorella, si sentiva quasi istintivamente costretto a nascondere anche a sè stesso la sua schiavitù d’affetto per quella donna che conosceva tutte le sue miserie. E le scriveva di notte, falsando i proprii sentimenti, che per stare in pace con lei e averla docile e pronta alle sue voglie, non aveva osato di confessarle, prima di partire, la vera ragione pur