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— Il così detto proletariato, — masticò tra i denti il Gangi.

— ....dalla miseria anche possibile, — seguitò il Noto, — mercè le assicurazioni obbligatorie contro gl’infortuni del lavoro e contro la futura inabilità dell’operajo per età o per malattia. Ora non vi sembra facile, cari miei, dati questi primi passi, il darne altri che ci conducano sempre più verso quello Stato-Provvidenza tanto biasimato dai più illustri scrittori positivi? Perchè, quando sia entrato nella coscienza pubblica il concetto, che la comunità deve occuparsi di coloro che per inabilità fisica non possono lavorare, è facile saltare il fosso che ci separa dalla regione vera del socialismo, estendendo il principio anche a gli uomini validi e disoccupati. E valga il vero! Se questi, non ostante la buona volontà non trovano lavoro, o se le loro fatiche non sono sufficientemente retribuite, sono forse meno da compiangere di coloro che, per un difetto fisico, non possono lavorare? L’effetto è il medesimo, signori miei: la fame non meritata! E con la proclamazione del diritto al lavoro, si può vedere da tutti dove si andrà a finire; si è già veduto, del resto, in Francia, nel 1848....

Un’improvvisa esclamazione di sdegno del canonico Agrò interruppe a questo punto il discorso di Filippo Noto, che cominciava ad assumere proporzioni e tono di vera concione.

Era arrivata da Comitini, paese nativo dell’Agrò, una lettera che denunziava un altro tradimento. Il figlio di Rosario Trigona s’era venduto colà al partito Capolino, spargendo la voce che Roberto Auriti deponeva le armi, si ritirava dalla lotta e pregava gli amici di votare per il candidato clericale contro il socialista Zappalà.