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qualche cosa, quella mattina; non sapeva quale. Si sarebbe messo a urlare come un lupo. Per non urlare, apriva la bocca, si cacciava una mano sui denti e tirava, tirava fin quasi a slogarsi la mascella. Poteva solo sfogarsi con quei due; ma, a stuzzicare il Lizio, che gusto c’era? Disperatonaccio come lui e, per giunta, con la testa piena di fumo. Due disgrazie, una sopra l’altra, il suicidio del padre, bravo avvocato ma di cervello balzano, poi quello del fratello, gli avevano cattivato in paese una certa simpatia, mista di costernazione, e anche un certo rispetto. Studiava molto e parlava poco, anzi non parlava quasi mai. La ragione c’era, veramente: gli mancava quasi mezzo alfabeto. Di lui si poteva ridere soltanto per questo: che aveva trovato nel Pigna il suo organetto; e organetto e sonatore, ogni volta, ai comizii, comparivano insieme. Se il Pigna stonava, egli lo rimetteva in tono, serio serio, tirandolo per la manica. Rivoluzione sociale.... fratellanza dei popoli.... rivendicazione dei diritti degli oppressi.... idee grandi, insomma! E forse perciò, distratto, s’era attaccato intanto a un tozzo di pane faticato da altri per lui. Faceva benone, oh! Solo che, con questo po’ po’ di freddo....

— Una caffettierina, volesse Iddio! — invocò con improvviso scatto il Préola, levando le braccia. — Tre pezzetti di zucchero, un vasetto di panna, quattro fettine di pane abbruscato. Oh animucce santo del Purgatorio!

Luca Lizio si voltò, brusco, a guatarlo. Proprio a una tazzolina di caffè pensava egli in quel momento, così accigliato; e la vedeva, e se ne inebriava quasi in sogno, aspirandone il fumante aroma; e stringeva in tasca, nel desiderio che lo struggeva, il pugno intirizzito. Partito a bujo, e sconfitto, da