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vive? che fa? da qual chiavica è scappato fuori? Lindo, attillato, con l’aria d’un principe regnante....
Il canonico Agrò scosse leggermente la testa con un sogghignetto su le labbra, poi disse:
— Aquiloni, cari amici, aquiloni! Lui, il Verònica e quanti altri mai! Sono gli aquiloni.... Voi li vedete in alto, ai sette cieli, rimanete a bocca aperta a mirarli; e chi sa intanto qual’è la mano che dà loro il filo! Può esser quella di qualche mala femmina; o il filo può venire dalla Questura, o da qualche bisca notturna.... Nessuno può saperlo! L’aquilone intanto è là, piglia il vento, lo segue e par che lo domini. Di tratto in tratto, uno svarione, una vertigine, l’accenno d’un crollo a capofitto. Ma la mano ignota, sotto, subito lo rialza con lievi scossettine sapienti o con larghe stratte energiche e lo rimette a vento e torna a dar filo e filo e filo. Gli aquiloni, cari miei.... Quanti ce n’è! E hanno tutti la coda, et in cauda venenum....
Sei teste si scossero per approvar silenziosamente e con profonda amarezza l’immaginoso paragone del canonico Agrò, che ne rimase egli stesso un pezzetto come abbagliato, e trasse un respiro di sollievo, quasi con esso si fosse scrollato dall’anima il peso della sconfitta.
Roberto Auriti soffriva maggiormente per quell’ostinato, cupo silenzio della madre. Ella aveva parlato molto prima, contro il suo solito, per dissuaderlo dall’impresa; e gravi erano state allora le sue parole; più grave, adesso, era il suo silenzio. Voleva che soltanto i fatti parlassero ora, crudamente, a conferma di quanto ella aveva, detto.
Se ne irritò, e disse:
— Del resto, amici miei, aquiloni o serpi.... lasciamoli andare! A parlarne, parrebbe che io, ve-