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ma mi sembra che proprio da allora la vita mi si sia chiusa tra un diluvio di guai, sia divenuta per me come era lo Stretto di Sant’Anna in quella notte da lupi, e che quei don don della campana a morto mi abbiano seguito per tutto il cammino....
Rientrò, in quel punto, Antonio Del Re con un nuovo telegramma. Ne erano già arrivati parecchi dalle varie sezioni elettorali del collegio. Il canonico Agrò lo aprì, lo lesse con gli occhi solamente e lo buttò in un canto, su la sedia presso al canapo. Nè Roberto nè gli altri si curarono di sapere da quale sezione venisse, qual esito recasse. Il gesto e il silenzio dell’Agrò erano stati eloquentissimi.
La sconfitta del momento, che toccava all’Auriti, rendeva più evidente quella, ben più grave, irrimediabile, che a ciascuno era toccata dal tempo e dalla vita. E questa sconfitta pareva avesse la propria immagine scolpita in donna Caterina Auriti Laurentano, taciturna e scura.
Di tratto in tratto gli amici e Roberto le volgevano uno sguardo fuggevole, come a uno spettro del tempo, di cui essi erano i superstiti vani. Altre voci erano nel nuovo tempo, che non trovavano eco negli animi loro; altri pensieri che non entravano nelle loro menti; altre energie, altri ideali, innanzi a cui i loro animi si chiudevano nemici.
E la prova era patente e cruda in quel mucchi di di telegrammi, là, su la sedia.
Era sorta improvvisamente, negli ultimi giorni, ma certo preparata in segreto da lunga mano, la candidatura d’un tale Zappalà di Grotte, perito minerario: candidatura esplicitamente dichiarata come di protesta e d’affermazione dei lavoratori delle zolfare e delle campagne della provincia, già raccolti in fasci.