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s’internava nella Sicilia in cerca del Filibustiere, il quale era intanto a Gibilrossa sopra Palermo; Rosario Trigona, disfatto adesso dalla nefrite, gonfio, calvo, sdentato e quasi cieco, sovraccarico anch’esso di famiglia, vivucchiava miseramente col magro stipendio di vice-segretario alla Camera di Commercio. E Mattia Gangi, che aveva buttato la tonaca alle ortiche per prender parte alla Rivoluzione, ora, asmatico, rabbioso, con la barba, i capelli e le foltissime sopracciglia ritinti color di petronciano, insegnava nel ginnasio inferiore alauda est laeta, è lieta un corno! — soggiungeva ai ragazzi con tanto d’occhi sbarrati: — “come lieta? perchè lieta? pare a noi lieta! canta perchè ha fame, canta per chiamare! lieta un corno! non ci credete!„ — Contrastava con questi Filippo Noto, alto, magro appassito, ma ancora biondiccio e azzimato. Prima del ’60 s’era battuto in duello con un ufficialetto borbonico per motivo di donne ed era stato perseguitato; quell’avventura amorosa era divenuta per lui precedente patriottico; ma s’impacciava poco di politica: studiando molto, era riuscito a tenersi a galla, a rinnovarsi coi tempi, pur rimanendo malva, conservatore; passava per uno degli avvocati più dotti del foro siciliano, ed era spesso chiamato a difendere le più importanti cause civili anche a Palermo, a Messina, a Catania.

Questi cinque amici e il canonico Agrò si sforzavano di tener desta la conversazione, parlando di cose aliene, di avvenimenti lontani, ricordando aneddoti che promovevano qualche riso stentato; tanto per impedire che, col silenzio, il peso della sconfitta, quantunque preveduta, gravasse maggiormente su gli animi oppressi. Ma veramente, a poco a poco, dopo la prima scossa nel riveder l’amico e ora per