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— Preghiamo Iddio che avvenga bene! — sospirò Monsignore, afflittissimo, levando gli occhi globulenti al cielo.
— Oh, non c’è da dubitarne! — sorrise il Salvo. — Un avversario ridicolo, che le ha prese da tutti, sempre: corto, grassoccio e miope forte. Il nostro Capolino, invece....
— Ho visto da lontano, per lo stradone, appena uscito da la villa, — disse don Ippolito, — le due carrozze che venivano a Colimbètra.
— Eh già, — soggiunse il Salvo, — a quest’ora, certamente...
E s’interruppe. Tacquero tutti, per un istante, sopraffatti, senza volerlo, dalla costernazione, e volarono col pensiero a la villa lontana, dove in quel momento avveniva lo scontro. Li era una ben diversa realtà: due uomini a fronte, due sciabole nude, guizzanti nell’aria; qua, in mezzo al silenzio della campagna, gli addobbi sfarzosi, improvvisati per una festa, che ora, stranamente, appariva a tutti quasi fuor di luogo, fittizia, sforzata.
C’era veramente, fin dall’arrivo, in fondo a gli animi una certa freddezza impicciosa, che tanto il Principe quanto il Salvo cercavano di dissimulare alla meglio. Tale freddezza proveniva dalla risposta di Landino, finalmente arrivata, alla lettera del padre: solite congratulazioni, soliti augurii, espressioni ricercate di compiacimento per la buona e affettuosa compagnia che il padre avrebbe avuto; ma nessun accenno alla sua venuta per assistere alle nozze.
Don Ippolito, partendo da Colimbètra, aveva divisato di mandare, a Roma Mauro Mortara, perchè facesse intendere a Landino quanto dispiacere, quanto dolore gli cagionasse la sua condotta, e lo inducesse a ritornare con sè in Sicilia. Sapeva che Landino