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Dall’alba egli era andato a rintanarsi, non si sapeva dove.
Don Cosmo, in maniche di camicia, sbuffava e smaniava per la camera in disordine, mentre donna Sara Alàimo, ancora spettinata, curva, sprofondata entro un’arca antica di faggio, stretta e lunga come una bara, gli cercava un abito decente, per farlo comparire nella solenne cerimonia. Spirava da quell’arca piena d’abiti vecchi un denso acutissimo odore di canfora.
— Mi tenga il coperchio, almeno, santo Dio! — gemeva, soffocata, come da sotterra, la povera “casiera„.
Già due volte le era caduto addosso il coperchio, su le reni.
E don Cosmo:
— Gnornò! che c’entra, dico io, che c’entra? Qua siamo in campagna.... Lasciatemi in pace....
— Ma si lasci servire.... — seguitava a gemere dentro l’arca donna Sara. — Verrà Monsignor Vescovo.... verrà la sposa.... Vuol comparire in giacchetta? Mi lasci cercare.... So che c’è!
— E io vi dico, invece, che non c’è più!
— Ma se l’ho vista io! C’è! C’è!
Cercava un’antica napoleona, che don Cosmo al tempo dei tempi aveva indossata una o due volte, e rimasta perciò nuova nuova, lì sepolta sotto la canfora, di foggia antica, sì, ma “abito di tono„ almeno....
— Eccola qua! — gridò alla fine, trionfante, donna Sara, rizzandosi su le reni indolenzite.
E tira e tira e tira.... oh, Dio, così lunga?... e tira....
Le si allentarono le braccia, a donna Sara. Era una tonaca, quella. La tonaca da seminarista di don Cosmo Laurentano.