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zogna come un mesto e caro esercizio di bontà. Essa, infatti, si esplicava in un impegno, in una gara di compitezze ammirevoli, per cui alla fine marito e moglie avevano acquistato non solo una stima affettuosa del loro merito, ma anche una sincera gratitudine l’uno per l’altra. E quasi si amavano.
— Gnazio, non vado via tranquilla! — diss’ella, entrando, come imbronciata d’un supposto inganno, che la addolorava e costernava. — Giurami che non vai a batterti questa mattina.
— Oh Dio, Lellè, ma se t’ho detto che vado a Siculiana! — rispose Capolino, levando le mani e toccandole lievemente le braccia. — Dovevo andarci jeri, lo sai. Sta’ tranquilla, cara. Il duello è stato rimandato alla fine delle elezioni.
— Debbo crederci, proprio? — insistette ella, stentando ad abbottonarsi il guanto con l’altra mano già inguantata.
Capolino volentieri avrebbe risposto a quell’insistenza con uno sbuffo; invece, sorrise; si accostò premuroso; le prese la mano per abbottonarle quel guanto, e vi s’indugiò, come un innamorato.
— Sapessi quanto mi secca d’andare a Valsanìa! — soggiunse lei allora, parlandogli quasi all’orecchio, con abbandono.
— Ma va’! — esclamò egli, guardandola negli occhi, come per farle avvertire che quella nota tènera — molto cara e graziosa del resto — era per lo meno fuor di tempo e di luogo.
— Ti giuro! — replicò ella, ostinandosi, ma pur rispondendo al sorriso.
Capolino scattò a ridere forte:
— Ma va’! ma va’! ma va’, che ti divertirai un mondo! Vedere quella foca di Adelaide davanti