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— Io no, La prego, donna Caterina, — disse allora, ridendo e toccandosi, il Selmi. — Mi lasci almeno questa illusione! Guardi, il Principe, innanzi a me, s’è dileguato lui come un’ombra.... Avrei pagato non so che cosa per vedermelo venire incontro anche per rifarmi.... eh, Roberto lo sa.... per rifarmi d’un certo incontro con suo figlio a Roma, in cui toccò a me, per forza, far la parte dell’ombra. Beh! pazienza.... Ma sì, lei dice bene, donna Caterina; ci ostiniamo purtroppo a volere esser ombre noi qua in Sicilia.... inetti o sfiduciati o servili.... Ma se il sole ci addormenta finanche le parole in bocca! Guardi, non fo per dire: ho studiato bene la questione, io. La Sicilia è entrata nella grande famiglia italiana con un debito pubblico di appena ottantacinque milioni di capitale e con un lieve bilancio di circa ventidue milioni. Vi recò inoltre tutto il tesoro dei suoi beni ecclesiastici e demaniali, accumulato da tanti secoli. Ma poi, povera d’opere pubbliche, senza vie, senza porti, senza bonifiche di nessun genere.... Come fu fatta la vendita dei beni demaniali e la censuazione di quelli ecclesiastici? Doveva esser fatta a scopo sociale, a sollievo delle classi agricole. Ma sì! Fu fatta a scopo di lucro e di finanza. E abbiamo dovuto ricomprare le nostre terre chiesastiche e demaniali e allibertar le altre proprietà immobiliari con la somma colossale di circa settecento milioni, sottratta naturalmente alla bonifica delle altre terre nostre. E il famoso quarto dei beni ecclesiastici attribuitoci dalla legge del 7 luglio 1866? Che irrisione! Già, prima di tutto, il valore di questi beni fu calcolato su le dichiarazioni vivissime del clero siciliano, per soddisfar la tassa di manomorta; e da questo valore nominale, noti bene, furon dedotte tutte le percentuali attri-