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parte alla rivoluzione. Per undici anni, finchè Roma non era stata presa, non s’era dato un momento di requie. Posate le armi, rimasto senza professione e senza alcun reddito, dopo avere speso per gli altri i suoi anni migliori, che doveva fare? Impiccarsi? La fortuna non aveva voluto favorirlo nei negozii; gli aveva accordato altri favori, ma che gli eran costati cari, e qualcuno — il maggiore e il peggiore — non alla tasca soltanto.
Corrado Selmi vietava a sè stesso ogni rimpianto. Pure, di tratto in tratto, quello de l’amore di donna Giaimetta D’Atri Montalto gli assaltava e gli strizzava improvvisamente il cuore. Ma più che pena per l’amor perduto, era rabbia per il cieco abbandono di sè nelle mani di quella donna, che per due anni lo aveva reso favola di tutta Roma, facendogli commettere vere e proprie pazzie. Pareva che colei avesse giurato a sè stessa di compromettersi e di comprometterlo in tutti i modi, presa da una furia di scandalo. Più per lei, che per sè, egli aveva cercato dapprima di frenarla, ma s’era poi sfrenato anche lui per timore che i suoi ritegni la offendessero, che la sua prudenza le paresse dappocaggine.
I più grossi debiti li aveva contratti allora, sebbene non figurassero sotto il suo nome per un riguardo alla donna che glieli faceva contrarre. Roberto Auriti s’era prestato, con fraterna abnegazione, a prender denari per lui alla Banca, dopo una segreta intesa però col governatore di essa.
La minacciata denunzia dei disordini di questa Banca costernava pertanto Corrado Selmi forse più che per sè, per Roberto Auriti. Ma la grave costernazione gli era in parte ovviata dalla fiducia che il Governo aveva interesse, per tante ragioni, a impedire che lo scandalo scoppiasse. Egli sapeva bene