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stiva con signorile, naturalissima eleganza, e spirava da tutta la persona, da ogni gesto, da ogni sguardo, una freschezza e una grazia che incantavano.
Questa persistente gioventù Corrado Selmi di Rosàbia la doveva al vivace, costante, profondo amore per la vita e, nello stesso tempo, al pochissimo peso che aveva dato sempre ad essa. Nè di troppi ricordi, nè di troppi studii, nè di troppi scrupoli, nè d’aspirazioni tenaci se l’era voluta mai gravare, come fanno tanti a cui per forza poi — sotto un tal fardello — debbono le gambe piegarsi, aggobbarsi le spalle.
Viaggiatore senza bagaglio — soleva egli definirsi. E sempre s’era imbarcato, così — spiccio e leggero — per viaggi lunghi, avventurosi e difficili. Niente da perdere, e avanti!
Fallita l’insurrezione del 4 aprile, scampato miracolosamente dal convento della Gancia, aveva dapprima guerrigliato con le squadre attorno a Palermo; s’era poi fatta la campagna del 1860 con Garibaldi fino al Volturno — ma come? Senza munizioni e con un fucilaccio che non tirava, venuto da Malta per sei ducati.
Alla Camera, tra tanti colleghi dalla fronte gravida di pensieri e dalla cartella gonfia di studii e di note e d’appunti, aveva fatto parte delle Commissioni più difficili. Sì, ma senza nè un lapis nè un taccuino.
Ginnastica, per lui, l’azione. E sempre s’era dato da fare, comunque; pur senza sforzarsi mai, per nulla. E tutto gli era riuscito facile e agevole, non schivando mai, anzi sfidando e bravando i più gravi pericoli, le più difficili imprese, le avventure più intricate.
Non credeva, non ammetteva che ci potessero es-