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degli altri Pasci della provincia e con quelli di tutta l’isola e con Milano e con Roma. Qualcuno, passando innanzi al portone del Fascio, talvolta lo poteva credere magari intento a cavarsi qualche caccoletta dal naso e ad abballottarla poi a lungo con le dita; ma che! che caccoletta! in quei momenti, Luca pensava: quel dito nel naso, pensava: quando pensava, Luca rimaneva talmente astratto e assorto, che non avvertiva neppur le strombettate dei cinque fratelli addetti alla fanfara, i quali, per dir la verità, erano un’ira di Dio. Ma non bisognava raffreddare l’entusiasmo giovanile. Cinque tra gli studenti dell’Istituto Tecnico accorsi tra i primi a iscriversi al Partito: Rocco Ventura, che aveva preso quell’anno il diploma di ragioniere, Mondino Miccichè, Bernardo Raddusa, Totò Licalsi ed Emanuele Garofalo, aiutavano Luca nella corrispondenza. Avevan trovato un galoppino che s’era assunto l’ufficio della polizia segreta, un certo Pìspisa, che bazzicava tutto il giorno con quelli de la questura. I quaranta socii, che presto sarebbero diventati quattrocento, quattromila, avevan già eletto i loro decurioni, ciascuno con la sua brava fascia rossa a tracolla. In previsione di qualche arresto del presidente, cioè di Luca Lizio, era stato eletto dal consiglio presidente segreto Rocco Ventura.

Perchè già, tanto lui. Pigna, quanto il Lizio erano stati chiamati insieme ad audiendun verbum dal cavalier Franco, commissario di polizia.

Uh, garbatissimo, biondo, roseo, sorridente, strizzando i begli occhi languidi cerulei o carezzandosi con le bianche mani di dama l’aurea barbetta spartita sul mento, il cavalier Franco aveva tenuto loro un discorsetto, che Pigna non si stancava di ripetere a tutti, imitando i gesti e la voce.