Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
ore di fatica (quando avevan la fortuna di trovar lavoro) si riducevano la sera in città con la zappa in collo, la schiena rotta e quindici soldi in tasca, sì e no. A questi mirava Nocio Pigna; erano i più; ma creta, creta, creta, in cui Dio non aveva soffiato, o la miseria aveva da tempo spento quel soffio; creta indurita, che destava pena e stupore se, guardando, moveva gli occhi, e parlando, le labbra.
Aveva preso in affitto il vasto magazzino d’un pastificio abbandonato al Piano di Gamez, accanto alla sua casa, capace di cinquecento e più socii: un po’ umido, sì, un po’ troppo bujo; ma, via, con due o tre candele accese, di giorno, ci si vedeva discretamente. Lo aveva addobbato alla meglio, tutto quanto con le sue mani. Dieci tabelle alle pareti, cinque di qua e cinque di là, coi motti sacramentali del Partito, che spiccavano su certi vecchi paramenti di finto damasco, i quali, se avessero potuto parlare, chi sa quanti paternostri e avemario si sarebbero messi a recitar sottovoce: un giorno, infatti, avevano adornato nelle feste solenni la chiesa di San Pietro, ove Nocio Pigna era stato sagrestano. Il vecchio beneficiale glien’aveva fatto dono, allora. Li aveva cavati dalla cassapanca, dove da tant’anni stavano riposti con la canfora e col pepe, tesoro screditato, ed eccoli là — Luca Lizio poteva pur dire di no — ma facevano una magnifica figura. Del resto, per attirare i contadini, non vedeva male Nocio Pigna che il Fascio avesse una cert’aria di chiesa; e là, su la tavola della presidenza, aveva posto anche un Crocefisso. Dietro la tavola troneggiava lo stendardo rosso ricamato da sua figlia Rita, la compagna di Luca. E Luca stava lì, dalla mattina alla sera, a studiare Marx (Marchis, diceva il Pigna), a scrivere, a corrispondere coi presidenti