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confini della provincia, sorgeva maestoso e invaporato Monte Gemini, tra i più alti della Sicilia. La grigia, arida asperità ferrigna era solo interrotta qua e là da qualche cupo carubo.
Il D’Ambrosio fece aspettare i due amici nel cortile; andò su e ridiscese subito con una grossa rivoltella da cavalleggere e una scatola di cartucce; tracciò con un pezzo di carbone sul muro, presso la stalla vuota, quattro segnacci, un uomo. Guido Verònica; poi contò dal muro venticinque passi.
— Qua, Gnazio! Batto tre volte le mani; alla terza, fuoco! In guardia. Capolino si prestava a quella prova come a uno scherzo, svogliato. Tuttavia, quando si vide innanzi, sul muro, quella quintana là, che ora smorfiosamente inerte pareva aspettasse i suoi colpi, ma che domani gli si sarebbe fatta incontro, staccandosi da quel muro, con gambe e braccia vive, presentandogli la bocca d’un’altra pistola, Capolino, col sorriso rassegato sulle labbra, aggrottò le ciglia, e tirò con impegno.
Il D’Ambrosio si dichiarò molto soddisfatto della prova; poi, per ridere, volle forzare Ninì a tirare anche lui al bersaglio.
Ninì recalcitrò come un mulo. Ma il D’Ambrosio tanto disse, tanto fece, che lo costrinse a sparare; poi, subito dopo, scoppiò in una matta risata:
— Parola mia d’onore, ha chiuso gli occhi, tutti e due! Un bicchier d’acqua! un bicchier d’acqua!
E corse a sostenerlo, come se davvero Ninì stesse per svenire. Ma non insistette molto su quello scherzo. Prese a parlare con molto fervore di Corrado Selmi:
— Simpaticone! Pare un giovanotto, sai? ed è del 4 aprile, della campana della Gancia.... Deve