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potesse bastargli a chiederlo il rispetto che si doveva alla sua onestà. Nessuno gli negava questo rispetto, e tutti si sentivano anche disposti a rendergli qualche onore consentaneo ai suoi meriti. Quello della deputazione, no, via: non era, nè poteva essere per lui; e la prova più evidente era appunto nell’ingenuità di quella sua illusione.
Venuti i padrini, Capolino si appartò con essi in un angolo dell’ampio salone del Circolo.
Ninì De Vincentis pareva imbalordito, col viso chiazzato, come se gli avessero dato qua e là tanti pizzichi, e gli occhi lustri, assenti e scontrosi. Il D’Ambrosio, alto e biondo, miope, irrequieto, dalla faccia equina, le spalle in capo, il torace enorme e le gambe secche e lunghe, parlava arruffato, ruzzolando le parole. Era sguajatissimo, e tutti tolleravano le sue sguajataggini, non solo perchè lo sapevano manesco, ma anche perchè spesso faceva ridere. Le sue ingiurie si spuntavano e perdevano il fiele nelle risate da cui erano accolte, e così egli poteva ingiuriar tutti e scagliare in faccia le villanie più crude, senza che nessuno se ne sentisse offeso o ferito.
— Fammi il santissimo piacere, — cominciò, — di dire a mia cugina Nicoletta che questa sera si stia quieta, perchè tu devi combattere per i santi diavoli. Voglio dire per i santi ideali. Sei vecchio, Gnazio, lo vuoi capire? Stendi il braccio: fammi vedere se ti trema.
Capolino sorridendo, stese il braccio.
— Va bene, — riprese il D’Ambrosio. — Gli daremo le palle, caro mio. Sul serio! Prima, alla pistola. Scambio di tre palle, a venticinque passi. (Raccomandazione a Ninì di non turarsi gli orecchi, al botto.) Poi, alla sciabola. Quanto alla sciabola, siamo