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Ignazio Capolino, intanto, aspettava i suoi, passeggiando coi maggiorenti del partito su l’ampia terrazza marmorea, innanzi al Circolo che, come tant’altre cose, aveva anch’esso nome da Empedocle.

Quel duello, proprio alla vigilia delle elezioni, gli aveva accresciuto importanza e simpatia. Egli mostrava di non curarsene affatto, e questa noncuranza per nulla ostentata destava ammirazione e compiacimento negli amici che gli passeggiavano accanto. Aveva già intrapreso il giro elettorale, e ora descriveva le festose accoglienze ricevute il giorno avanti nel vicino borgo di Favara. Avrebbe voluto recarsi quel giorno stesso nell’altro borgo di Siculiana, dove gli elettori lo attendevano impazienti; ma il D’Ambrosio, suo padrone, suo tiranno in quel momento, glie l’aveva assolutamente proibito, per paura che si strapazzasse troppo.

Gli dispiaceva per gli amici di Siculiana, ecco. Gli avevano preparato anch’essi una gran festa. La vittoria era sicura, non ostanti le minacce e le prepotenze del Governo e gli ordini del Prefetto e le persecuzioni della polizia. Roberto Auriti avrebbe avuto, sì e no, una maggioranza di pochi voti soltanto nel borgo di Comitini, dove Pompeo Agrò contava molti amici.

Capolino dava queste notizie con sincero rammarico per il suo avversario, e sinceramente questo rammarico era condiviso da quanti lo ascoltavano. Perchè si sapeva che l’Auriti non aveva mai cavato alcun profitto dai principii liberali, per cui da giovine aveva combattuto, nè dalla fedeltà che sempre aveva serbato ad essi; e che certamente non per cavarne profitto adesso, era venuto a chiedere il suffragio de’ suoi concittadini, ma quasi per un dovere impostogli, forse per l’ingenua illusione, che