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aveva chiesto però qualche giorno di tempo per provvedersi di padrini. Ed era arrivato da Palermo il deputato Corrado Selmi, con un altro signore, che si diceva famoso spadaccino. Roberto Auriti, intanto non potendo battersi col Préola e non volendo che altri vendicasse della turpe offesa la memoria del padre, aveva preteso di battersi lui per primo col Capolino. I padrini di questo, il Verònica stesso, si erano opposti a tale pretesa. A nome del Capolino quelli avevano lealmente dichiarato di deplorar l’articolo del Préola, pubblicato di furto nel giornale. Squalificato così da’ suoi stessi partigiani il vero autore dell’offesa, per altro riconosciuto indegno di scendere sul terreno e ormai cacciato via da Girgenti, l’Auriti non aveva più da domandare altra soddisfazione; e un solo duello doveva aver luogo perchè l’affare si terminasse lodevolmente: il duello tra il Verònica e il Capolino, per l’aggressione da questo patita sulla pubblica via. Troppo giusto!
La vertenza tanto dibattuta aveva appassionato vivamente la cittadinanza, tra la quale d’improvviso s’erano scoperti tanti calorosi dilettanti di cavalleria; e la passione sopra tutto s’era accesa per l’intervento d’un uomo così noto come il Selmi e per le arie spagnolesche e provocanti dell’altro testimonio del Verònica, spadaccino.
Ma, dal canto suo, il campione paesano, Ignazio Capolino, s’era affidato anche lui in buone mani: a un certo D’Ambrosio, lontano parente della moglie, che sapeva tener bene la spada in pugno e non si sarebbe lasciato imporre nè dal prestigio di Corrado Selmi nè dalla spocchia di quell’altro messere. E lui solo, ohè! perchè l’altro testimonio di Capolino faceva ridere: Ninì De Vincentis, figurarsi!
Povero Ninì, vi era stato tirato proprio pei ca-