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stoso, dopo il fiammeggiare dei meravigliosi tramonti, su la piaggia che s’ombrava tutta di notturno azzurro, pareva riassumesse in sè la tristezza infinita del silenzio, che spirava dai luoghi, sonori un tempo di tanta vita. Era qua, ora, il regno della morte. Dominata, in vetta al colle, dall’antica cattedrale normanna, dedicata a San Gerlando, dal Vescovado e dal Seminario, Girgenti era la città dei preti e delle campane a morto. Dalla mattina alla sera, le trenta chiese si rimandavano con lunghi e lenti rintocchi il pianto e l’invito alla preghiera, diffondendo per tutto un’orrida tetraggine. Non passava giorno, che non si vedessero per via, in processione funebre le orfanello grige del Boccone del povero: squallide, curve, tutto occhi nei visini appassiti, col velo in capo, la medaglia sul petto, e un cero in mano. Tutti, per poca mancia, potevano averne l’accompagnamento; e nulla era più triste, che la vista di quella fanciullezza oppressa dallo spettro della morte, seguito così, ogni giorno, a passo a passo, con un cero in mano, dalla fiamma vana nella luce del sole.

Chi poteva curarsi, in tale animo, delle elezioni politiche? E poi, perchè? Nessuno aveva fiducia nelle istituzioni, nè mai l’aveva avuta. La corruzione era sopportata come un male cronico, irrimediabile; ed era considerato ingenuo o matto, impostore o ambizioso, chiunque si levasse a gridar contro ad essa.

In quei giorni, più che delle imminenti elezioni politiche, gli sfaccendati parlavano del duello del candidato Ignazio Capolino con Guido Verònica.

Per l’intromissione violenta di Roberto Auriti, la questione cavalleresca s’era complicata. Guido Verònica aveva accettato subito la sfida del Capolino;