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scuole governative, tribunali, davano ancora un po’ di movimento, ma quasi meccanico, alla città: altrove ormai urgeva la vita. L’industria, il commercio, la vera attività in somma, s’era da un pezzo trasferita a Porto Empedocle giallo di zolfo, bianco di marna, polverulento e romoroso, in poco tempo divenuto uno de’ più affollati e affaccendati emporii dell’isola.
Ma anche là, la sovrabbondanza dello zolfo per le condizioni mal proprie con cui si svolgeva l’industria, l’ignoranza degli usi, a cui quel minerale era destinato, e dei profitti che se ne potevan cavare, il difetto di grossi capitali, il bisogno o l’avidità di un pronto guadagno, eran cagione che quella ricchezza del suolo, che avrebbe dovuto esser ricchezza degli abitanti, se n’andasse giorno per giorno ingojata dalle stive dei vapori mercantili inglesi, americani, tedeschi e francesi, lasciando tutti coloro che vivevano di quell’industria e di quel commercio con le ossa rotte dalla fatica, la tasca vuota e gli animi inveleniti dalla guerra insidiosa e feroce, con cui si eran conteso misero prezzo o lo scotto o il nolo della merce da loro stessi rinvilita.
A Girgenti, solo i tribunali e i circoli d’Assise davan da fare veramente, aperti com’erano tutto l’anno. Su al Culmo delle Forche il carcere di Santo Vito rigurgitava sempre di detenuti, che talvolta dovevano aspettare tre e quattro anni per essere giudicati. E meno male che l’innocenza, nel maggior numero dei oasi, di questo forzato indugio non aveva a patire.
La città era piuttosto tranquilla; ma nelle campagne e nei paesi della provincia i reati di sangue, aperti o per mandato, per risse improvvise o per vendette meditate, e le grassazioni e l’abigeato e i