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aperta sul petto irsuto, un enorme berretto villoso in capo, ch’egli da sè stesso s’era fatto dal cuojo d’un agnello, la cui concia col sudore gli aveva tinti di giallo i lunghi cernecchi e, ai lati, l’incolta barba bianca: comico e feroce, con due grosse pistole sempre alla cintola, anche di notte, poichè si buttava a dormir vestito su uno strapunto di paglia per poche ore soltanto: a settantasette anni sveglio ancora e robusto, più che un giovanotto di venti.
— E non morrà mail — sbuffava Sciaralla. — Sfido! Che gli manca? Dopo tant’anni è considerato come parte della famiglia anche da don Ippolito, che è tutto dire. Con don Cosmo per poco non si dànno del tu.
E ripensava, proseguendo la via, alle straordinarie avventure di quell’uomo che, al Quarantotto, aveva seguito nell’esilio a Malta il principe padre, don Gerlando Laurentano, il quale gli s’era affezionato fin quando, privato del grado di Gentiluomo di Camera, Chiave d’oro, per uno scandalo di corte a Napoli, s’era ritirato a Valsanìa, dove il Mortara era nato, figlio di poveri contadini, contadinotto anche lui, anzi guardiano di pecore, allora.
A un’avventura segnatamente, tra le tante, si fermava il pensiero di Placido Sciaralla: a quella che aveva procurato al Mortara il nomignolo di Monaco; avventura dei primi tempi, avanti al Quarantotto, quando a Valsanìa, attorno al vecchio Principe di Laurentano, acceso di vendetta e ora fervente promotore di libertà, si radunavano di nascosto, venendo da Girgenti, i caporioni del comitato rivoluzionario. Mauro Mortara faceva la guardia ai congiurati a piè de la villa. Ora una volta un frate francescano ebbe la cattiva ispirazione di avventurarsi fin là per la questua. Il Mortara lo prese