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gli quietasse la coscienza, avendo trasgredito a un ordine positivo ricevuto la sera avanti dal segretario del Principe: l’ordine di recare sul tamburo una lettera a don Cosmo Laurentano, fratello di don Ippolito, che viveva segregato anche lui nell’altro fèudo di Valsanìa, a circa quattro miglia da Colimbètra.

Sciaralla non se l’era sentita d’avventurarsi a quell’ora, con quel tempo da lupi fin laggiù; aveva pensato che Lisi Préola, il vecchio segretario, avendo una forca di figliuolo che aspirava a diventar capitano della guardia, non cercava di meglio che mandar lui Sciaralla all’altro mondo; che però forse quella lettera non richiedeva tale urgenza ch’egli rischiasse di rompersi il collo per una via scellerata, al bujo, sotto la pioggia furiosa, tra lampi e tuoni; e che infine avrebbe potuto aspettar l’alba e andare di nascosto, senza rinunziare per quella sera alla briscola nella casermuccia sul greppo dello Sperone, ove si riduceva coi tre compagni graduati a passar la notte, dandosi il cambio ogni tre ore nella guardia.

L’uscir di Colimbètra era sempre penoso per capitan Sciaralla, ma una vera spedizione allorchè doveva recarsi a Valsanìa. Qua gli toccava ogni volta d’affrontar paziente l’odio d’un vecchio energumeno, terrore di tutte le contrade circonvicine, chiamato Mauro Mortara, il quale, approfittando della dabbenaggine di don Cosmo, a cui certo i libracci di filosofia avevano sconcertato il cervello, vi stava da padrone, nè sopra di lui riconosceva altra signoria.

— Coraggio, coraggio, Titina! — sospirava pertanto Sciaralla, ogni qualvolta gli si presentava alla mente la figura di quel vecchio: basso di statura, un po’ curvo, senza giacca, con una pesante, ruvida camicia d’albagio di color violaceo a quadri rossi