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Coraggio, Titina!


Aveva già attraversato il tratto incassato nel taglio perpendicolare del lungo ciglione, su cui sorgono aerei e maestosi gli avanzi degli antichi templi akragantini, e dove un tempo si apriva la Porta Aurea dell’antichissima città scomparsa. Ora ranchettava giù per il pendìo che conduco alla vallata di Sant’Anna, per la quale scorre, intoppando qua e là, un fiumicello di povere acque: l’Hypsas antico, ora Drago, secco d’estate e cagione di malaria in tutte le terre prossime, per le trosce stagnanti tra gl’ispidi ciuffi del greto. Impetuoso e torbido per la grande acquata della notte scorsa, investiva laggiù, quella mattina, il basso ponticello uso, d’estate, ad accavalciare i ciottoli e la rena.

Veramente da quella triste contrada maledetta dai contadini, costretti a dimorarvi dalla necessità, macilenti, ingialliti, febbricitanti, pareva spirasse nello squallore dell’alba gelida un’angosciosa oppressione, di cui anche gli alberi fossero compenetrati: quei centenarii olivi stravolti, quei mandorli ischeletriti dalle prime ventate d’autunno.

— Che acqua, eh? — s’affrettava a dire capitan Sciaralla, imbattendosi lungo quel tratto nella gente di campagna o nei carrettieri che lo conoscevano, per prevenire beffe e ingiurie, e dava di sprone alla povera Titina.

Non a caso però, quel giorno, metteva innanzi la pioggia della notte scorsa. Trottando e guardando nel cielo la nera nuvolaglia sbrendolata e raminga, pensava proprio ad essa per trovarvi una scusa che