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a mezzo del discorso, frastornò il Costa, il quale si voltò anche lui a guardare la “Signorinella„, com’egli la chiamava. Questa di pallida si fece vermiglia, poi subito pallida di nuovo.
— Dunque? — gridò Flaminio Salvo, con ira.
— Dunque, sissignore, — riprese il Costa sconcertato. — Guajo grosso, non c’è soldati; il paese, nelle loro mani. Due carabinieri soli, il maresciallo e il delegato.... Che possono fare?
— E che posso fare io di qua, me lo dici? — gridò il Salvo su le furie. — Tuo figlio Aurelio che cos’è? il signor ingegnere direttore, venuto dall’École des Mines di Parigi, che cos’è? Marionetta? Ha bisogno che gli tiri io il filo di qua, per farlo muovere?
— Ma nossignore, — disse Leonardo Costa, ritraendosi d’un passo, come se il Salvo lo avesse sferzato in faccia. — Può star sicuro Vossignoria che mio figlio Aurelio sa quello che deve fare. Testa e coraggio.... non tocca a dirlo a me.... ma di fronte a duemila uomini, tra solfarai e carrettieri, mi dica Vossignoria.... Del resto, il guajo è un altro, fuori del paese. Aurelio ha mandato ad avvertirmi jeri sera che quelli hanno catturato per lo stradone gli otto carri di carbone che andavano alle zolfare di Monte Diesi.
— Ah, sì? — fece il Salvo, sghignando.
— Vossignoria sa — seguitò il Costa — che il carbone lassù per le pompe dei cantieri è come il pane pei poverelli, e anche più necessario. Vossignoria va a Girgenti? Vada subito dal prefetto perchè mandi soldati alla stazione d’Aragona, quanti più può, per fare scorta al carbone fino alle zolfare. Ci son sette vagoni pieni per rinnovare il deposito; i carrettieri sono in isciopero anch’essi; ma il car-