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E nella voce pareva avesse la gioja dell’aria pura e del sole, quella stessa gioja che tremava nella gola delle allodole.
Per quel giorno Mauro le aveva promesso una visita al “camerone„ del Generale: al “santuario della libertà„. Ma i cani, a un tratto, drizzarono le orecchie; poi l’uno dopo l’altro s’avventarono senza abbajare verso il sentieruolo sotto la vigna, sul ciglio del burrone.
— Don Ma’! Don Ma’! — chiamò poco dopo, di lì, una voce affannata.
Mauro la riconobbe per quella di Leonardo Costa, l’amico di Porto Empedocle; e chiamò a sè i cani.
— Te’, Scampirro! Te’, Nèula! Qua, Turco!
Ma i cani avevano riconosciuto anch’essi il Costa e s’erano fermati al limite della vigna, scodinzolandogli dall’alto.
Sopravvenne Mauro.
— Il principale? È partito? — gli domandò subito Leonardo Costa, trafelato, ansante.
Era un omaccione dalla barba e dai capelli crespi, ferruginei, dalla faccia cotta dal sole e dagli occhi bruciati dalla polvere dello zolfo. Portava a gli orecchi due cerchietti d’oro e, in capo, un cappellaccio bianco tutto impolverato e macchiato di sudore. Veniva di corsa da Porto Empedocle, per la spiaggia, lungo la linea ferroviaria.
— Non so, — gli rispose Mauro, fosco.
— Per favore, date una voce di costà, che aspetti; debbo parlargli di cosa grave.
Mauro scosse il capo.
— Correte, farete a tempo.... Che vi è avvenuto?
Leonardo Costa, riprendendo la corsa, gli gridò:
— Guai! guai grossi alle zolfare!