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Capitolo Quinto.
Alba torbida.
Appena il primo albore filtrò, lieve, attraverso le foglie aspre, coriacee del caprifico accapannato in fondo alla vigna, Mauro Mortara, appoggiato al tronco, aggrottò le ciglia, ritirò le braccia, stirò la schiena e rugliò nella gola e nel naso.
L’anima, appena risentita, gli mosse due o tre volte le pàlpebre; chiese ancora il tepido bujo del sonno; ma udì poi un gallo cantare da un’aja loritana, un altro gallo da più lontano rispondere; udì un frullo d’ali vicino, e si riscosse.
I tre mastini, accucciati sotto l’albero intorno a lui, lo guardavano con occhi umidi, intenti, salutandolo amorosamente con la coda. Ma il padrone li guatò, seccato che lo avessero veduto dormire; poi si guatò le gambe distese aperte, rigide, su la terra cretosa della vigna; terra su terra; si scrollò da le spalle il cappotto d’albagio; si stropicciò gli occhi acquosi col dorso delle mani; cavò in fine dalla sacca, pendula da un ramo, tre tozzi di pan secco e li buttò in bocca alle bestie; si tirò su su in piedi e, appeso il cappotto all’albero, lo schioppo a la spalla, si mosse ancor mezzo trasognato per la vigna.