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zio, di foglie e d’ali. Dal prossimo poggio di Tamburello pareva che movesse al tempio di Hera Lacinia, sospeso lassù, quasi a precipizio sul burrone dell’Akragas, una lunga e folta teoria d’antichi chiomati olivi; e uno era là, innanzi a tutti, curvo sul tronco ginocchiuto, come sopraffatto dalla maestà imminente delle sacre colonne; e forse pregava paco per quei clivi abbandonati, pace da quei templi, spettri d’un altro mondo e di ben altra vita. Calda, fiammante, canora, la civiltà, un giorno, da quei clivi, s’era diffusa, fatta di sentimento e d’illusione: stridente di macchine, gelida oggi la civiltà, fatta di ragione, scendeva dal nord, come un lenzuolo di neve.
Sonò a un tratto nel bujo sopravvenuto il chiurlo lontano d’un assiolo, come un singulto.
Don Ippolito si sentì stringere improvvisamente la gola da un nodo di pianto. Guardò le stelle che già sfavillavano nel cielo, e gli parve che al loro lucido tremolìo rispondesse dalle campagne deserte il tremulo canto sonoro dei grilli. Poi vide, oltre il burrone del fiume, a levante, vacillare il lume di quattro lanterne cieche su per l’aspro greppo dello Sperone.
Era Sciaralla, che si arrampicava coi tre compagni per montar la vana guardia alla casermuccia lassù.