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— Troppo presto.... — osservò sorridendo Monsignore. — Bisognerà avvertire.... dar tempo.... Doman l’altro poi, no: è martedì. Le donne, sapete bene, badano a codeste cose. Sarà per mercoledì.

E si alzò, con stento e con riguardo per la sua molle rosea grassezza donnescamente curata, sospirando:

Bene eveniat! Quel povero figliuolo.... — soggiunse poi, alludendo al De Vincentis. — Si trovasse modo di tranquillarlo.... Ne sarei proprio lieto.... Mah!

A piè della scala Monsignor Montoro trattenne il Principe e, indicando la porta del Museo, ove era il De Vincentis, disse piano:

— Non vi fate vedere. Lo saluterete dal terrazzo. Buona sera.

Il Principe gli baciò la mano e risalì la scala. Poco dopo dal terrazzo s’inchinò al vescovo e salutò con la mano il De Vincentis che si scappellava, evidentemente senza scorgerlo. Rimase lì, seduto presso la balaustrata a guardar nella campagna silentissima l’ombra che man mano s’incupiva, la striscia rossastra del crepuscolo, che diveniva livida e quasi fumosa sul cerulo mare lontano, su cui, laggiù in fondo, nereggiavano gli uliveti di Montelusa, a destra della lucida foce dell’Hypsas. In mezzo al cielo cominciava ad accendersi la falce della luna.

Don Ippolito guardò i templi che si raccoglievano austeri e solenni nell’ombra, e sentì una pena indefinita per quei superstiti d’un altro mondo e d’un’altra vita. Tra tanti insigni monumenti della città scomparsa solo ad essi era toccato in sorte di veder quegli anni lontani: vivi essi soli giù, tra la rovina spaventevole della città; morti ora essi soli in mezzo a tanta vita d’albori palpitanti, nel silen-