Pagina:I vecchi e i giovani Vol. I Pirandello.djvu/129


— 124 —

pure era tanta parte della vita del Principe: cioè, i suoi studii archeologici, il suo culto per le antiche memorie. Non poteva toccarlo, quest’argomento, per timore che fosse pretesto a don Ippolito di riparlargli d’una cosa, di cui, egli, uomo di mondo e senza ubbie d’alcuna sorta, non voleva sapere. Più volte il Principe aveva cercato d’indurlo a consacrare almeno una piccola parte della sua cospicua mensa vescovile al restauro dell’antico Duomo, insigne monumento d’arte normanna, deturpato nel Settecento da orribili sostruzioni di stucco e volgarissime dorature. Egli s’era rifiutato, dicendogli che, se mai fosse riuscito a metter da parte qualche risparmio, lo avrebbe piuttosto destinato a costituire una rendita, per cui al convento di Sant’Alfonso, lì presso la cattedrale, potessero ritornare i Padri Liguorini cacciati via dopo il 1860.

A don Ippolito non importava nulla dei miglioramenti arrecati alla sua città natale dalle nuove amministrazioni succedute alle decurie e agli intendenti del suo tempo. Per quanto non si desse requie nella lotta e mostrasse animo risoluto a raggiungerne il fine, non aveva più fiducia, in fondo, ch’egli potesse rivedere la città, da cui si era esiliato. La vedeva col pensiero, com’essa era prima di quell’anno fatale, ancora coi burgi e gli stazzoni, cioè coi pagliai e le fornaci nella piazza paludosa fuori Porta di Ponte; ancora coi tre crocioni del Calvario sul declivio del colle, da cui ogni anno, il venerdì santo, si faceva la predica a tutto il popolo lì adunato, e ancora con l’antico giardinetto che un suo amico devoto, il colonnello Flores, comandante la guarnigione borbonica, per ingraziarsi gli animi dei cittadini, vi aveva fatto costruire dieci anni prima della rivoluzione. Sapeva che quel giardinetto era stato