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— No, no, — rispose afflitto Monsignore — Una preghiera che, stimo, non potrà avere alcun effetto. Il De Vincentis crede che Ninì, suo fratello minore, sia innamorato della figlia di Flaminio Salvo, e....
— E.... — fece il Principe.
Ma aveva già compreso; e il dialogo terminò sicilianamente in uno scambio di gesti espressivi. Don Ippolito si pose le mani sul petto e domandò con gli occhi: “Dovrei farne io la richiesta Salvo?„ Monsignore assentì malinconicamente col capo; dapprima denegò l’altro, poi alzò le e una mano a un gesto vago, per significare “Non lo faccio; ma quand’anche lo facessi?...„ Monsignore sospirò, e basta.
Stettero un pezzo in silenzio entrambi.
Don Ippolito, già da parecchi anni, avvertiva confusamente, che quel Monsignor Montoro gli era non tanto innanzi agli occhi, quanto nello spirito un grave ingombro, quasi che, col peso inerte di quelle sue carni rosee, troppo curate, si adagiasse a impedire, che tante cose attorno a lui e per mezzo di lui si movessero. Quali, in verità, non avrebbe saputo dire; ma certo, con quella figura lì con quella mollezza rosea inerte ingombrane molte molte colui doveva trascurarne, che forse un altro al posto suo, più àlacre e men femineo, avrebbe mosso, anzi scosso e avviate.
Dal canto suo, Monsignore avvertiva, che tra lui e il principe c’era un sentimento non ben definibile, che spesso da una parte e dall’altra s’arricciava, si ritraeva, lasciando tra loro un vuoto impiccioso, dal quale venisse dentro a ciascuno de’ due una certa lieve acredine rodente.
Forse questo vuoto era fatto da un argomento, che Monsignore sapeva di non poter toccare, e che