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ad asciugarsi gli occhi, si voltò a queste ultime parole del vescovo.

— Beneficio?

— Sì, figliuolo. Tu non puoi saperlo perchè, disgraziatamente, non ti sei dato mai cura de’ tuoi affari. Vedi ora il dissesto e senti il bisogno d’incolparne qualcuno, a torto; invece di portarvi rimedio. Non eri venuto qua per questo?

Il De Vincentis, che non poteva ancora parlare dalla commozione, chinò più volte il capo.

— È meglio — riprese Monsignore — che tu vada giù; col vostro permesso. Principe. Esporrò io il tuo desiderio.

Don Ippolito si alzò e invitò il De Vincentis a seguirlo; poi, su la scala, lo affidò a Liborio, cui diede la chiave del Museo, e ritornò dal vescovo, che lo accolse con un sospiro, scotendo le mani intrecciate.

— Due sciagurati, lui e il fratello! Flaminio Salvo, vi assicuro, Principe, ha usato loro un trattamento da vero amico. Senz’alcuna.... non diciamo usura per carità, non se ne parla nemmeno; senz’alcun interesse ha prestato loro dapprima somme rilevantissime; ha avuto poi offerta da loro stessi una terra, di cui egli, banchiere, dedito ai commerci, capirete, non sa che farsi: un altro creditore avrebbe mandato al pubblico incanto la terra, per riavere il suo danaro. Egli invece ha fatto all’amichevole e ha continuato a tenere aperta la cassa ai due fratelli che spendono, spendono.... non so come, in che cosa.... senza vizii, poverini, bisogna dirlo, ottimi, ottimi giovani; ma di poco cervello. Il fatto è che navigano proprio in cattive acque.

— Vorrebbero ajuto da me? — domandò don Ippolito, con un tono che lasciava intendere che sarebbe stato dispostissimo a darlo,