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Ella negò col capo, asciugandosi gli occhi col fazzoletto listato di nero, e gli porse in fretta il medaglioncino.

— Morta, — disse. — Addio.

Don Ippolito l’accompagnò a piè de la villa; l’ajutò a montare in vettura; le baciò lungamente la mano; poi la seguì con gli occhi, finchè la vettura non svoltò dal breve viale a manca per uscire dal cancello. Là uno della compagnia, in divisa borbonica, pensò bene d’impostarsi militarmente per presentar le armi. Don Ippolito se n’accorse e si scrollò rabbiosamente.

— Codeste pagliacciate! — muggì, fulminando con gli occhi Capitan Sciaralla, che si trovava presso il vestibolo.

Risalì a la villa, si chiuse in camera, e di lì mandò a far le scuse a don Illuminato, se per quel giorno non lo tratteneva a desinare con lui.


Verso sera.


Monsignor Montoro arrivò alle quattro del pomeriggio con la sua vettura silenziosa, tirata da un pajo di vispi muletti accappucciati.

Lo accompagnava Vincente De Vincentis, l’arabista, che aveva lasciato quel giorno la biblioteca di Itria per il vicino Palazzo Vescovile e s’era sfogato a parlare, a parlare per tutti i giorni e i mesi, in cui, quasi avesse lasciato la lingua per segnalibro tra un foglio e l’altro di quei benedetti codici arabi, restava muto come un pesce.

Aveva parlato anche in vettura, durante il tragitto, con certi scatti e schizzi e sbruffi che gli sco-