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Don Ippolito che, seguitando a leggere, aveva ascoltato con animo sospeso il racconto, a quest’ultima domanda si scosse, indignato, come se la sorella lo avesse percosso sul viso, accomunandolo con quell’abietto che aveva scritto l’articolo.
Si levò in piedi, alteramente; masi frenò subito, e andò a premere un campanello. A Liborio, che subito si presentò su la soglia:
— Il Préola! — ordinò.
Poco dopo il vecchio segretario entrò curvo, ossequioso, anzi strisciante, quasi cacciato lì dentro a frustate. Vestiva un’ampia e greve napoleona. Dal colletto basso, troppo largo, la grossa testa calva, inteschiata, sbarbata, gli usciva come quella d’un vitello scorticato.
— Eccellenza.... Eccellenza....
— Manda subito a chiamare tuo figlio a Girgenti, — comandò il Principe. — Che venga subito qua! Debbo parlargli.
— Eccellenza, mi conceda, — s’arrischiò a dire il Préola, storcendosi e curvandosi vie più, con una mano sul petto, mentre la trama delle vene gli si gonfiava sul cranio paonazzo, — mi conceda che all’eccellentissima sua signora sorella io, umilmente....
— Basta, basta, basta! — gridò seccamente il Principe. — So io quel che debbo dire a tuo figlio. Anzi, ascolta! Mi fa troppo schifo, e non voglio nè vederlo, nè parlargli. Gli dirai tu che se si arrischia ancora di mostrare la sua laida grinta per le vie di Girgenti, tu sei messo alla strada: ti caccio via su due piedi! Inteso?
Il Préola cavò un fazzoletto dalla tasca posteriore della napoleona e approvò, approvò più volte, asciugandosi il cranio; poi si portò il fazzoletto agli occhi e si scosse tutto per un impeto di singhiozzi: