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— Caterina, — mormorò, sostando; e le tese istintivamente le braccia.
Ella non si mosse: rimase lì, in mezzo al salone, cèrea tra le fitte gramaglie, col volto contratto e gli occhi chiusi: altera, indurita nello spasimo di quell’attesa. Aspettò ch’egli le si accostasse e gli toccò appena la mano con la sua, gelida, inerte, guardandolo ora con quegli occhi stanchi, velati di cordoglio, quasi a metà nascosti dalle pàlpebre, uno più, l’altro meno.
— Siedi, — disse, con gli occhi bassi, quasi intimidito, il fratello, indicando il divano e le poltrone nella parete a sinistra.
Seduti, stettero un lungo pezzo entrambi senza poter parlare, in un silenzio che fremeva d’intensa, violenta commozione. Don Ippolito chiuse gli occhi. La sorella, dopo aver soffocato parecchie volte con sforzo un singhiozzo che le faceva impeto alla gola, disse alla fine, con voce rauca:
— Roberto è qui.
Don Ippolito si scosse; riaprì gli occhi e, senza volere, li volse in giro per la sala, come se — smarrito tra gl’interni ricordi tumultuanti — avesse temuto un’imboscata.
— Non qui, — riprese donna Caterina, con un freddo, amaro, lievissimo sorriso, — nel tuo dominio straniero. A Girgenti, da due giorni.
Don Ippolito, aggrondato, chinò più volte la testa per significarle che sapeva.
— E so perchè venuto, — aggiunse con voce cupa; poi levò il capo e guardò la sorella con penosissimo sforzo: — Che potrei....
— Nulla.... oh! nulla, — s’affrettò a rispondergli donna Caterina. — Voglio che tu lo combatta con tutte le tue forze. Non ci mancherebbe altro, che