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aveva parlato, sebbene per la distanza non ne avessero colto una parola.
Don Ippolito Laurentano restò acceso a mirare con gli occhi ceruli intensi il magnifico panorama. Dov’egli aveva rappresentato l’incendio formidabile e la distruzione, ora s’abbandonava la pace inconsapevole della campagna; dov’era il cuore dell’antica città sorgeva ora un bosco di mandorli e d’olivi il bosco detto perciò ancora della Civita. Le chiome dei mandorli s’erano con l’autunno diradate e, tra quelle perenni degli olivi cinerulei, parevano aeree assumevano sotto il sole una tinta roseo-dorata.
Oltre il bosco, sul lungo ciglione, sorgevano i famosi templi superstiti, che parevano collocati apposta, a distanza, per accrescere la meravigliosa vista de la villa principesca. Oltre il ciglione, il pianoro ove stette splendida e potente l’antica città, strapiombava aspro e roccioso a precipizio sul piano di ban Gregorio formato dall’alluvione dell’Akragas: tranquillo piano luminoso, che spaziava fino a terminare laggiù, laggiù, nel mare.
— Non posso soffrire questi Tèutoni, — disse il Principe, rientrando con don Illuminato Lagàipa nel Museo, — questi Tèutoni che, non potendo più con le armi, invadono coi libri e vengono a dire spropositi in casa nostra, dove già tanti se ne fanno e se ne dicono.
S’intese in quel punto il rotolìo d’una vettura per la strada incassata, dietro la villa, e don Ippolito contrasse le ciglia. Entrò poco dopo, turbato, smarrito nella sorpresa, Liborio, il cameriere.
— Pe.... perdoni, Eccellenza, — balbettò. — È arrivata da Girgenti la.... la signora....
— Che signora? — domandò il Principe.
— Sua sorella.... donna Caterina....