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odierna Girgenti, come vogliono questi dottoroni tedeschi. Il colle di Girgenti restava oltre il perimetro delle antiche mura. Lo dimostrerò.... lo dimostrerò! Mettano lassù Càmico.... la reggia di Còcale.... Òmface.... quello che vogliono.... l’Acropoli, no.

E scartò con la mano Girgenti, che si vedeva per un tratto, lassù, a sinistra della Rupe, più bassa.

— Lì, — riprese, additando di nuovo la Rupe Atenèa e ispirandosi, — lì, sublime vedetta e sacrario soltanto, non acropoli, non acropoli, sacrario dei numi protettori. Gellia ascese, fremebondo d’ira e di sdegno, al tempio della diva Athena, dedicato anche a Giove Atabirio, e vi appiccò il fuoco per impedirne la profanazione. Dopo otto mesi d’assedio, stremati dalla fame, gli Akragantini, cacciati dal terrore e dalla morte, abbandonano vecchi, fanciulli e infermi e fuggono, protetti dal siracusano Dafneo, da porta Gela. Gli ottocento Campani si sono ritirati dal colle; il vile Desippo s’è messo in salvo; ogni resistenza è ormai inutile. Solo Gellia non fugge! Spera d’avere incolume la vita mercè la fede, e si riduce al santuario d’Athena. Smantellate le mura, ruinati i meravigliosi edifizii, brucia qua sotto la città intera; e lui dall’alto, mirando il vasto spaventoso incendio che innalza una funerea cortina di fiamme e di fumo su la vista del mare, vuol ardere nel fuoco della Dea.

— Stupenda, stupenda descrizione! — esclamò il Lagàipa con gli occhi sbarrati.

Giù, nel secondo dei tre ampli ripiani fioriti, degradanti innanzi a la villa, come tre enormi gradini d’una scalea colossale. Placido Sciaralla e Lisi Préola, appoggiati alla balaustrata marmorea, avevano interrotto la conversazione e ora tentennavano il capo, ammirati anch’essi del calore con cui il Principe