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gàipa, che già s’era spogliato degli arredi sacri e aveva fatto la solita colazione di cioccolato e biscottini.

Era un prete tozzo, tondo di corpo, ma di cervello non tanto, dal volto nero, bruciato dal sole nel quale gli occhi cilestri, troppo chiari, pareva vaneggiassero, smarriti. Buon uomo, in fondo, pacifico e non curante; lì, in presenza del Principe, che ogni domenica lo tratteneva a pranzo, si dava, per fargli piacere, arie di rigida e battagliera, intransigenti di cui rideva poi, discorrendo filosoficamente con la sua vecchia e fedele Fifa, l’asina mansueta, che lo riconduceva al campicello presso al camposanto di Bonamorone, pochi ettari di terra, che — se sapevano il rapido passar della vita — pure, sotto questo o quel re, producevano ogni anno i loro frutti e sentivano gli effetti della pioggia e del sole, ignari delle vicende politiche e sociali.

— Domenica, oggi, e non si lavora! — soggiunse, levando le mani e sorridendo.

— Non è lavoro, il mio, propriamente, — gli disse con un sobrio gesto garbato don Ippolito

— Già! già, otia, otia, secondo Cicerone! — si corresse don Lagàipa. — Ha ragione. Venivo per dirle che jeri mattina, prima che mi recassi al mio campicello, Monsignore mi fece l’onore di incaricarmi d un’ambasciata per Vostra Eccellenza

— Monsignor Montoro?

— Già. Mi disse di avvertir Vostra Eccellenza che oggi, nel pomeriggio, con l’ajuto di Dio egli verrà qua, per parlare, suppongo, delle prossime elezioni. Eh, — sospirò, intrecciando le dita e scotendo e mani così giunte, — pare che il diavolaccio maledetto si senta prudere le corna.... Guerra, guerra.... tempesta! Ho sentito che sono arrivate da