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sua opera dovesse tanto sopravvivere e parlare a profana gente un linguaggio diabolico, là, ornamento adesso d’un vestibolo, tra cassoni di lauri e di palme.

Finita la messa, gli uomini della compagnia di guardia fecero ala su l’attenti, al passaggio del Principe, che si recava al Museo.

Così eran chiamate le sale a pianterreno dell’altro lato del vestibolo, nelle quali, tra alte piante di serra, erano raccolti gli oggetti antichi, d’inestimabile valore: statue, sarcofaghi, vasi, iscrizioni, scavati a Colimbètra, e che don Ippolito aveva illustrati molti anni addietro nelle sue Memorie d’Akragas, insieme col prezioso medagliere esposto su, nel salone de la villa.

L’antica famosa Colimbètra akragantina era veramente molto più giù, nel punto più basso del pianoro, dove tre vallette si uniscono e le rocce si dividono e la linea dell’aspro ciglione, su cui sorgono i Tempii, è interrotta da una larga apertura. In quel luogo, ora detto dell’Abbadia bassa, gli Akragantini, cento anni dopo la fondazione della loro città, avevano formato la pescheria, gran bacino d’acqua che si estendeva fino all’Hypsas e la cui diga concorreva col fiume alla fortificazione della città.

Colimbètra aveva chiamato don Ippolito la sua tenuta, perchè anch’egli lassù, nella parte occidentale di essa, aveva raccolto un bacino d’acqua, alimentato d’inverno dal torrentello che scorreva sotto Bonamorone e d’estate da una nòria, la cui ruota stridula era da mane a sera girata da una giumenta cieca. Tutt’intorno a quel bacino sorgeva un boschetto delizioso d’aranci e di melograni.

Nel museo don Ippolito soleva passare tutta la mattinata, intento allo studio appassionato e non