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al naso, congiungendo le folte sopraciglia, davano un aria di cupa e rigida tenacia. Era Antonio Del Re, il nipote Pallidissimo di solito, appariva i quel momento quasi cèreo.

— Hanno letto nell’Empedocle? — domandò con un fremito nelle labbra e nel naso.

Il canonico Agrò e il Mattina alzarono subito le mani per impedire che seguitasse.

— Contro Roberto? — domandò donna Caterina.

— Contro il nonno! — rispose vibrante il giovinetto. — Una manata di fango! E contro te!

— Sozzure! sozzure! — esclamò l’Agrò. Per carità non ne sappia nulla il povero Roberto!

Già sta a leggerlo, — disse il nipote, sprezzante.

— No! no! — gridò allora l’Agrò, levandosi in piedi. — Oh Signore Iddio, bisognava prevenirlo! Già questi farabutti hanno avuto la lezione che si meritavano dal nostro Verònica! Per carità vada lei, donna Caterina.... Imprudenza, imprudenza, ragazzo mio!

Donna Caterina accorse; ma troppo tardi. Roberto Auriti, ignorando quello che poc’anzi aveva fatto il Verònica, era corso — pallido, col volto contratto da un sorriso spasmodico, e come un cieco — alla redazione di quel giornalucolo, presso Porta Atenèa. Vi aveva trovati già raccolti i maggiorenti del partito, con Flaminio Salvo alla testa, per proclamare, subito dopo l’aggressione, la candidatura d’Ignazio Capolino. Al vecchio usciere, che stava di guardia nella saletta d’ingresso, innanzi all’uscio a vetri della sala di redazione, aveva detto — ancor sorridendo a quel modo — che Roberto Auriti voleva parlare col direttore. Nella sala di redazione s’era fatto un improvviso silenzio; poi agli orecchi di Roberto eran venute queste parole concitate: