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da comperarsi il pane; ci sono tutte le angherie che si possono impunemente commettere, approfittando della spaventevole ignoranza di questi poveri schiavi, abbrutiti dalla miseria. Si stia zitto! si stia zitto!

Guido Verònica sorrise nervosamente, inchinandosi e aprendo le braccia; poi si rivolse a Roberto: — Oh senti.... (col suo permesso, signora!): avrei bisogno del tuo cifrario, per spedire un telegramma d’urgenza a Roma.

— Ah già, bravo, bravo! — esclamò il canonico Agrò, riscotendosi dal doloroso atteggiamento preso durante la violenta intemerata di donna Caterina.

Roberto si recò di là per il cifrario. La conversazione cadde fra i tre amici e la vecchia signora; poi l’Agrò per rompere il silenzio penoso sopravvenuto, sospirò:

— Eh, certo sono tristi assai le condizioni del nostro povero paese!

E la conversazione fu ripresa un po’, ma senza più calore. I tre avevano un’intesa segreta tra loro ed erano anche gonfii e costernati dello scandalo di quell’articolo: si scambiavano occhiate d’intelligenza, avrebbero voluto rimanere soli un momento per accordarsi sul miglior modo di preparare Roberto a questa notizia. Ma donna Caterina non se n’andava.

— Sa se Corrado Selmi — le domandò Guido Verònica — ha scritto a Roberto che verrà?

— Verrà, verrà, — rispose ella, scrollando il capo con amaro sdegno.

— Ci ho pensato, — disse piano il Verònica all’Agrò e al Mattina. — Tanto meglio se viene. Anzi gli spedirò io stesso un telegramma perchè venga subito, per me, capite? Così Lando.... zitti, ecco Roberto.

Ma non era Roberto: entrò invece nella sala un giovinetto alto, smilzo, a cui le lenti serrate in cima