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Ippolito Lauretano, fiero e pervicace nella fedeltà al passato governo delle Due Sicilie, tenesse nel suo fèudo di Colimbètra (dove fin dal 1860 si era per onta e per dispetto relegato) una guardia di venticinque uomini con la divisa borbonica, si voltava stupito e si fermava un pezzo a mirare quel buffo fantasma emerso dall’umido barlume del crepuscolo, e non sapeva che pensarne.

Passando innanzi allo stupore di questi ignoranti, Sciaralla, capitano di quella guardia, non ostante il freddo e la pioggia ond’era tutto abbrezzato e inzuppato, si drizzava su la vita, assumeva un contegno marziale; marzialmente, se capitava, porgeva con la mano il saluto a qualcuno di quei tabernacoli; poi, chinando gli occhi per guardarsi le punte tirate su a forza e insegate dei radi baffetti neri (indegni baffi!) sotto il robusto naso aquilino, cangiava l’amorevole esortazione alla bestia in un: “Su! su!„ imperioso, seguito da una stratta alla briglia e da un colpetto di sproni giunti, a cui talvolta Titina — mannaggia! — sforzata così nella lenta vecchiezza, soleva rispondere con poco decoro.

Ma questi incontri, tanto graditi al Capitano, avvenivano molto di raro. Tutti ormai sapevano di quel corpo di guardia a Colimbètra, e ne ridevano se n’indignavano.

— Il Papa, in Vaticano con gli Svizzeri; don Ippolito Laurentano, nel suo fèudo con Sciaralla e compagnia!

E Sciaralla, che dentro la cinta di Colimbètra si sentiva a posto, capitano sul serio, fuori non sapeva più qual contegno darsi per sfuggire alle beffe e alle ingiurie.

Già cominciamo che tutti lo degradavano, chiamandolo caporale. Stupidaggine! indegnità! Perchè