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bile. Aveva l’impressione che la vita gli si fosse come ingorgata dentro e gli ribollisse, fomentata dal rimorso di quell’ozio e dal bisogno prepotente di darsi comunque uno sfogo. Ma come sottrarsi a quell’ozio, se aveva ormai acquistato la certezza di non poter più far nulla, poichè tutto gli si era come intralciato e confuso nel cervello? e dove trovar lo sfogo? Aveva corso Roma da un capo all’altro, come un matto quasi senza veder nulla, tutto assorto in sè, in quella cupa scontentezza di tutto e di tutti, in quel ribollimento continuo di pensieri impetuosi che, prima di precisarsi, gli svaporavano dentro, lasciandolo vuoto e come stordito, coi lineamenti del volto alterati, scontorti, le pugna serrate, le unghie affondate nel palmo della mano.
Infine, dalla sorda rabbia che lo divorava, da quell’agra inerzia fosca, un’idea truce, mostruosa aveva cominciato a germinargli nello spirito, la quale subito aveva preso a nutrirsi voracemente di tutto il rancore contro la vita, fin dall’infanzia accolto e covato.
L’idea gli era balenata, sentendo una sera a tavola discorrere del modello delle bombe recato da Francesco Crispi in Sicilia durante i preparativi della Rivoluzione del 1860 e della loro confezione. Corrado Selmi aveva detto che ne aveva preparate alcune anche lui, di notte, nel magazzino preso in affitto da Francesco Riso presso il convento della Gancia. Forte delle sue nozioni di chimica moderna, egli s’era messo a ridere e aveva dimostrato quanto fosse puerile quella confezione, e come adesso si sarebbero potuti ottenere effetti più micidiali con ordegni di molto più piccolo volume.
— Ecco! — aveva esclamato allora Corrado Selmi. — Per fare un po’ di festa, bisognerebbe buttare