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E che barca di matti quella tavola, a cui sedevano ogni sera quattro o cinque estranei, invitati lì per lì, o che venivano a invitarsi da sè, deputati amici di zio Roberto e di Corrado Selmi, maestri di musica chiomati, cantanti d’ambo i sessi! Che discorsi vi si tenevano, a quali scherzi spesso si trascendeva! E che pena vedere zio Roberto lì in mezzo, zio Roberto ch’egli da lontano s’era iminaginato con le stesse idee, con gli stessi sentimenti della nonna e della mamma (e non a torto, chè ogni giorno poi glieli dimostrava con le più squisite attenzioni, con le cure paterne), che pena vederlo lì in mezzo, partecipare a quei discorsi, a quegli scherzi, e di tratto in tratto sorprendergli nel volto uno sguardo, un sorriso afflitto, di mortificazione, se incontrava gli occhi suoi che lo osservavano stupiti e addolorati!
Qual guida più poteva dargli quello zio? Egli avrebbe potuto permettersi tutto, sicuro di non potere aver da lui nè un richiamo, nè un rimprovero. Si era iscritto alla facoltà di scienze; ma come studiare in quella casa, che cinfolava, gargarizzava, guagnolava dalla mattina alla sera di trilli e scivoli e solfeggi e vocalizzi? Del resto, l’Università così lontana, i numerosi studenti gai e spensierati, gli avevano destato fin dal primo giorno un’avversione invincibile, uggia, scoramento, sdegno, dispetto; e, pigliando scusa da ogni cosa, non era più andato. S’era figurato, e subito aveva ritenuto per certo, che a qualcuno di quei ragazzacci là potesse venire la cattiva ispirazione di farsi beffe di lui così serio e diverso: e che sarebbe allora accaduto? Solo a pensarci, gli s’artigliavano le mani. Un incentivo qualunque, in quel punto, una favilla, e il furore, represso con tanto sforzo, sarebbe divampato terri-