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care e più sacre, pur di salvar la barca, barca senza più nè bussola, nè àncora, nè timone, assaltata dalle onde incessanti in quella perpetua bufera ch’era stata la loro vita. Ma tuttavia questo era in essi meraviglioso e pietoso e comico a un tempo, che pur avendo fatto getto di tutto senza alcun ritegno, eran rimasti nell’anima schietti, d’una ingenuità vivida e tutta alata di palpiti gentili, eran rimasti affettuosi, generosi, pronti sempre a spendersi per gli altri, a confortare, a soccorrere, ad accendersi d’entusiasmo per ogni nobile azione. Quel che di scorretto, di male, di vergognoso era nella loro vita, forse stimavano sinceramente non imputabile ad essi. Necessità su cui bisognava chiudere un occhio, e se uno non bastava, tutt’e due. Con quanta dignità, per esempio, Olindo Passalacqua, dopo aver mangiato alla tavola di zio Roberto e aver raccomandato a questo di non dimenticarsi di far prendere a Nanna le gocce per il mal di cuore o di far toglier subito dalla tavola il trionfino delle frutta per paura che, toccando inavvertitamente la buccia di qualche pesca, non le si avesse a rompere, Dio liberi, il sangue del naso, come tante volte le soleva avvenire; lasciava a lui il letto maritale e, augurando alla moglie la buona notte, felicissimi sogni a tutti, anche ai canarini e al merlo nelle gabbie, al pappagallo Cocò sul trèspolo; a Titì, la scimmietta tisica, su l’anello; a Ragnetta la gattina in colletto e cravatta; ai due vecchi cani Bobbi e Piccinì, invalidi entrambi in una cesta, quello cieco e questo con la groppa impeciata; se n’andava coi due indici su le punte dei baffi, impalato già nella rigida severità di censore inflessibile, a dormire nel Privato Conservatorio del cognato Bonomè in via dei Pontefici!